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Intervista Silvio Grand - by Marco Buso - Un Toco de Tango -


L’argentino Silvio Grand è un ballerino di tango professionista che vive la sua esperienza tra spettacoli e insegnamento. Il TDj e musicologo Marco Buso “El Pibe” l’ha intervistato per “Un Toco de Tango” prima di una delle sue lezioni promossa dal nostro gruppo.

MB: Silvio, innanzitutto benvenuto e grazie per questa chiacchierata sulla tua esperienza nel tango.

SG: Ciao Marco, figurati, è un piacere per me.

MB: Vorrei iniziare chiedendoti di parlarmi liberamente dei tuoi primi passi nel tango. Come iniziasti? Cosa ti attrasse? Con chi studiasti all’inizio?

SG: Presi la mia prima lezione di tango nel 1995, a quindici anni. In quel periodo giocavo a pallavolo nel Club Oeste, che era vicino a dove abitavo. La stessa struttura ospitava una milonga il martedì, e credo che ci sia ancor oggi. La sala dove giocavo era una sorta di palestra con pavimento in parquet, canestri e rete da pallavolo, e lo spazio era delimitato da porte-finestre nascoste da tende che davano su altre sale in cui si svolgevano altre attività. Un giorno, mentre giocavo, intravidi dietro una di queste tende un uomo in nero che si stava dando in un movimento particolare, che a posteriori posso identificare probabilmente come un esercizio di camminata in traspié con contrapposizione del bacino. In quel momento, con gli occhi di un ragazzo che non sapeva nulla di tango, mi parve di vedere Michael Jackson. Non potevo credere a quello che avevo visto. Il giorno dopo andai a chiedere se fosse possibile assistere ad una lezione di tango, sebbene non avessi neanche un soldo in tasca e non potessi permettermi di chiederli ai miei genitori. Mi risposero che potevo andare liberamente dato che ero già ero membro del club, e poi facevano entrare comunque gratuitamente gli adolescenti. Anche il mio primo maestro, Francisco Santapá, era della stessa opinione. Aveva piacere che il suo corso fosse frequentato da giovani entusiasti, anche se non potevano pagare. Cominciai a frequentare anche un altro corso, il giovedì, presso il Circulo de la Armada, ma dato che naturalmente neanche qui potevo pagare, aiutavo i gestori con l’allestimento e con piccoli lavori in cambio della partecipazione alle lezioni. All’età di dieci anni avevo cominciato a fare qualche piccola comparsa televisiva in pubblicità o serie. Tutti mi suggerivano di studiare teatro e danza contemporanei per imparare ad essere più flessibile e spontaneo. Quando conobbi il tango, lo legai istintivamente allo spettacolo, allo spessore teatrale e televisivo che il ballo poteva assumere. Mi interessava l’aspetto artistico del tango più che quello sociale della milonga. Forse la milonga non mi attirava molto all’inizio anche perché ero giovane, e quell’ambiente era frequentato da persone molto più grandi di me.

MB: In che modo si sviluppò in seguito questo tuo interesse per la dimensione teatrale del tango?

SG: Mi esibii per la prima volta in teatro già a un solo anno dalla prima lezione, nel 1996, e ballavo in modo orribile. Però avevo sedici anni, un minimo di esperienza di recitazione, la possibilità di vestirmi bene (ricordo che indossai una sciarpa e un colbacco), e tutta questa cornice fece sì che apparissi consapevole di ciò che facevo. L’anno successivo cominciai anche ad insegnare il tango, non perché fossi bravo, ma perché avevo bisogno di soldi. Oggi, quando vedo allievi che si mettono a insegnare dopo tre anni di ballo, dico “Non va bene”, ma mi torna sempre in mente quello che ho fatto io stesso! Ma ero molto sicuro, mai improvvisato. Non si poteva discutere, sapevo bene quello che facevo. Tra i miei allievi vi era una giapponese il cui padre era un documentarista interessato a tutto ciò che vedeva di insolito e particolare. Egli decise di girare un documentario su quel ragazzino argentino che per guadagnarsi da vivere ballava e insegnava il tango a Buenos Aires. Parte integrante del documentario consisteva nel portarmi in Giappone per farmi esibire e conoscere. Così, a diciotto anni, feci il mio primo viaggio fuori dell’Argentina per il tango a beneficio di questo documentario. Poco dopo, nell’inverno del 1999, fui invitato in Germania, dove la rete televisiva ZDF voleva produrre un video simile a quel primo documentario. Cercando un po’ in giro, trovai un contatto con una compagnia di musicisti di Innsbruck, con i quali feci qualche spettacolo presso alcuni teatri cittadini. Nello stesso periodo mi esibii anche in Svezia per l’associazione Tango Norte, esperienza che fu molto importante per la mia carriera. Il mio contatto era un argentino residente in Svezia di nome Raúl, che mi invitò a stare con loro per un mese. Da quel momento in poi, cominciai a recarmi regolarmente in Svezia ogni due anni, a capodanno, in occasione del festival di Stoccolma.

MB: In che modo proseguisti poi i tuoi studi di tango? Quali altri maestri frequentasti dopo Francisco Santapá?

SG: Inizialmente i miei studi furono decisamente concentrati sulla dimensione spettacolare del tango. Dopo Francisco, un altro maestro importante nella mia carriera fu Héctor Pájaro. Intorno ai vent’anni cominciai a capire che il tango non era solo una questione teatrale e mi interessai al tango guidato della milonga. Studiai molto con Fernando Galera, e poi con Roberto Herrera, che mi ha insegnato davvero tanto. Di fatto, la gran parte della mia tecnica e didattica odierna, dall’abbraccio all’enrosque, discende proprio dagli insegnamenti di Roberto. Naturalmente i maestri sono stati tanti, ma questi quattro sono quelli che hanno lasciato maggiormente il segno nel mio tango. Ricordo che Fernando [Galera], che non era per nulla un ballerino da palco, mi diceva: “Silvio, so che quando sei in teatro i salti e le acrobazie le devi fare per il pubblico, ma abbi cura che tutto sia comunque fluido e armonioso come se fossi in milonga. Fai in modo che anche lo spettacolo sembri tango.” Ancor oggi, quando spiego qualcosa, penso istintivamente: “Questo me l’ha detto Fernando! Questo me l’ha insegnato Roberto!”

MB: Per quanto riguarda la tua storia professionale più recente, invece, cosa ci racconti?

SG: Tra il 2000 e il 2004 sospesi un po’ l’attività di insegnamento. In quel periodo, più che altro, ho studiato tanto io, mentre portavo avanti il mio lavoro nello spettacolo (continuavo a lavorare per la televisione, non solo attraverso il tango, e presso il teatro di avanspettacolo Esquina Carlos Gardel di Buenos Aires). Mi stavo rendendo conto di quanto il tango fosse realmente profondo, ad essere veramente consapevole della guida, dell’improvvisazione, della connessione di coppia. Nel 2004 ricominciai a viaggiare, partecipando come insegnante a seminari e festival. Da quel momento non ho più sospeso l’attività didattica, alla quale cominciai a dedicarmi con molta più consapevolezza rispetto a prima, sulla base di ciò che avevo imparato nel corso dei precedenti quattro anni di studio.

MB: Qual è, in linea generale, la tua filosofia tanguera?

SG: Credo che il tango si dividi in tre mondi diversi: la scuola, la milonga e il teatro. I primi due sono quelli fondamentali, a cui ogni appassionato di tango dovrebbe dedicarsi. Nel primo, le persone vanno a scoprire cosa possono fare con il proprio corpo e con quello del compagno, mentre nel secondo le stesse persone vanno a divertirsi. Le due dimensioni sono distinte, ma tra loro complementari. Se si fa una sola delle due cose, viene meno un’esperienza fondamentale. Quello del teatro è invece un mondo completamente a sé stante. Personalmente, ho fatto mia la linea di Fernando Galera secondo la quale anche nello spettacolo di tango si deve vedere il tango, Buenos Aires, il Río de la Plata. Poi arriva l’acrobazia, il salto, l’espressione, ma lo spettacolo non può puntare ad essere solo fredda plasticità atletica senza connessione alla situazione e al partner. Capita, talvolta, che riguardandomi nei video veda più o meno connessione e sentimento a seconda dei casi (siamo umani e può succedere a tutti di sbagliare), ma l’obiettivo coreografico deve sempre essere volto all’immersione nel tango. Io vedo il tango dove il movimento nasce dall’improvvisazione. La coreografia nasce fondamentalmente dall’improvvisazione. Su questa base improvvisativa si innestano tutti gli elementi teatrali, dalle figure più “sceniche” alla storia che si vuole raccontare. Per quanto riguarda le esibizioni, sono senz’altro più affezionato a quelle in teatro che a quelle in milonga, perché in queste ultime la gente tende a giudicare molto in base alle esperienze ed agli stili personali. In teatro, invece, l’artista offre uno spettacolo, e paradossalmente i giudizi di gusto personale intervengono molto meno, in favore di maggiore obiettività. Tirando un po’ le fila, direi che la mia personale filosofia si concretizza nell’unione tra questi tre mondi: l’insegnamento, la milonga e lo spettacolo.

MB: Silvio, sento che i tuoi allievi cominciano a scalpitare e non ti voglio trattenere oltre. Solo un’ultima cosa, per concludere. Raccontaci un po’ del dvd che ci hai portato, Dieci anni insieme.

Il dvd è stato fatto in occasione dei miei dieci anni di carriera con Mayra [Galante]. Non riguarda strettamente la nostra storia artistica, bensì racconta quel periodo della nostra vita, quei dieci anni, dal 2001 al 2011, in cui ho ballato con Mayra. Si tratta di una compilation dei nostri balli e di quelli dei nostri maestri, tra i quali Juan Carlos Copes. Inoltre in esso sono raccolte diverse testimonianze di persone che per noi sono state importanti, tra cui quelle di una direttrice artistica che fu nostra mentore e di un critico d’arte e giornalista esperto di tango.

MB: Silvio, grazie per aver dedicato quest’intervista a “Un toco de tango”, è stato un piacere! Buona lezione!

SG: Grazie a voi Marco, è stato un piacere per me! E ora…al lavoro!


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